giovedì 10 settembre 2015

Emotional overload

In effetti avrei potuto intitolarlo “A volte ritornano”, vista l'assenza prolungata, alias blabla-pausa-di-riflessione-blabla, alias ho-avuto-molto-sonno-puntini-puntini, alias mancanza-di-parole-virgola-o-meglio-di-quelle-giuste-punto, alias m i s o n o p e r s a p e r s t r a d a. Ecco. E non che non ci sia abituata, ma fa sempre un certo effetto.

Avrei anche potuto chiamarlo, “Mordetemi, parte seconda” o “Mordetemi, la vendetta”. Visto che anche stavolta, come quando sono atterrata a Tokyo, ho seriamente pensato: ma sogno o son desta? E non che non l'avessi previsto ma, di nuovo, fa sempre un certo effetto.

E invece no.
Ho fatto la romanticona.
La sentimentalona.
La poethahahah.
E insomma questo pezzo (?!), racconto (?), flusso di coscienza (!) è stato battezzato così:

Emotional overload

Ci voleva il Sud Africa a ridarmi le parole, o meglio la capacità di codificarle.
Ci voleva il Sud Africa a ricordarmi che non sto sognando, ma sono assolutamente desta e che se anche vorrei che qualcuno mi mordesse per capire se è tutto vero, sì, è tutto vero e io sono qui, a Johannesburg, per gli amici Joburg.

Ad accogliermi una vera big mama. Sulla porta della mia camera. Capisco subito che c'è qualcosa che non va. Ed in effetti è così. Lo strafighissimo lampadario, della mia strafighissima stanza, di questo strafighissimo hotel sta cadendo. Big mama mi guarda con sguardo caritatevole ed esordisce con un hey my love, I know you're tired but you gotta wait. Deal. Big mama mi intrattiene – credo che più che intrattenermi stia cercando di tenermi buona – mentre qualcun altro – hey sista how are you doin'? - lotta con strafighissimo lampadario luccicante. Welcome to South Africa, sista.

Lampadari a parte, della mia prima e per ora unica volta a Joburg ho in effetti poco da raccontare, a parte tutto il quaquaraqua, emozionale appunto. Della prima volta appunto. Per il resto è stata una giornata di sonno e taxi, perché a Joburg o così o niente. E quando l'ho richiesto, il taxi, mi hanno pure guardata male:
- ma perché?
- come, scusi?
- dove vuoi andare?
- a Soweto
- a fare cosa?
- …
- abbiamo il Lion Park. Perché non vai al Lion Park?
- …
-te lo prenoto per due ore ma non scendere da sola, non portare la borsa, non fiatare, non respirare in pubblico, non prendere caramelle dagli sconosciuti, non [...]

Johannesburg, quindi, l'ho vista dal finestrino.
Dopo venti minuti di periferie, io, il mio tassista elegante e composto - che, in onore di me, di altre due assonnate avventuriere e dei nostri portafogli, s'improvvisa guida turistica- giungiamo a Soweto. Soweto potrebbe suonare come un nome dal sapore africano ma in realtà è solo l'acronimo dell'occidentalissima nomenclatura South Western Townships. A cercarla nel dizionario, la parola township viene letteralmente definita come “area abitata da gente di colore”. Da qui non è difficile capire che Soweto sia stata il cuore pulsante dell'apartheid, il prodotto più evidente dei piani di segregazione.

A noi si presenta come un distretto vivace e colorato, dove la gente balla, canta, beve, si prepara al weekend, si scatena. Si ferma, si gira, ci guarda, si rigira, ricomincia a ballare. Qualcuno balla per noi, sotto le cooling towers mentre, al tramonto, le fotografiamo, con i loro colori e il loro fascino urbano.

Altri venti minuti di periferie ci riportano ai nostri bicchieri di vino rosso, alle loro bistecche, alla mia insalata, alle stanze museo, ai lampadari luccicanti. Mi perdo, disorientata dal vino e dal troppo sonno, in questa vanità, la fotografo. Inizio a scrivere questo flusso di coscienza, senza sapere che a distanza di mesi, forse un anno, sarebbe stato ancora incompiuto. Affondo in cuscini morbidi e candidi, pensando che questo modo di viaggiare, sempre di fretta e sempre immancabilmente stanca, ti impedisce quasi di realizzare a pieno dove ti trovi, non ti lascia il tempo né le forze, di assaporare ciò che ti circonda e a mala pena sai che sei qui, ora, a Johannesburg, per gli amici Joburg.

Vivi i posti a spezzoni, e se ci ritorni, li collezioni volta per volta, come le sorprese dell' uovo Kinder. Come Città del Capo, la città più bella che abbia mai collezionato finora. Cape Town, che-fa-più-figo, non l'ho vista da un taxi, ma in vari altri modi, che comunque non mi sono bastati.


Da una terrazza a Camps bay, davanti a un tramonto arancione che avrei voluto saper fotografare con sapienza. Da una spiaggia del capo, tra struzzi e pinguini, la migliore lezione di geografia della storia. Dall'alto di un autobus, quelli rossi a due piani che ti scrivono in fronte sono-un-turista. In una domenica di primavera inoltrata e la città pullulava di cose e gente. Ho spiato volti e quotidianità. L'ho vista anche a piedi, il giorno di Pasqua, al seguito di una guida rasta e figa che mi ha insegnato a urlare più o meno così.

Ne ho letto la storia dentro i musei e tra le mura colorate di Boo-Kap, che tutto sembrano raccontare, meno che un passato di tragedie. Che tutto pensi, trane che di essere in uno dei paesi più pericolosi del mondo.Ne ho letto le ferite ancora aperte tra i vicoli polverosi della township di Langa, con un chiodo che ha trapassato prima la mia scarpa e poi la mia carne.

Non ti preoccupare Madame, mi ha fatto tradurre un bambino che mi ha preso per mano, è successo anche a me, ma vado ancora a scuola.

lunedì 17 novembre 2014

Bis Bald


A presto, e ancora buon compleanno Berlino dal cielo freddo, bianco, grigio, ma non troppo. Che ogni mattina ti svegli e corri. Non come me che, assonnata, passeggio e ti osservo.

Berlino dai mille popoli. Ti conoscono tutti, ti parlano tutti e alcuni ti cantano. Dicono che tu non sia Germania, ma non parlano di geografia. Parlano di se. E di me. 

Berlino, città di lacrime. Si leggono ovunque, bene impresse, ancora giovani. C'è chi ne fa tesoro e chi un business.

Berlino della U-bahn, che mi concilia i pensieri. I progetti di vita. Oppure il sonno. E le fantasie. Z u r ü c k b l e i b e n, bitte.

Berlino del sabato sera, dagli stivali bassi e dai capelli che puzzano di fumo. Dai mille locali vintage che non badano al tuo outfit e che più sei spettinata più sei figa. Che ilgintonicilvinolabirra non me li ricordavo così facili. Zum Wohl 

Berlino del Tränenpalast. Il Museo delle lacrime, lo chiamano. Dove i Berlinesi dell'est e quelli dell'ovest si salutavano sapendo che sarebbe stato per settimane, mesi, forse anni. Dove "ma-che-fai-mi-segui, ti-scoccia-se-metto-l'audio-in-inglese?, ammazza-quanto-sei-fico, non-parlarmi-più-perché-non-riesco-a-guardarti, sono-una-sedicenne," ma stasera andiamo a cena.
Vero?

Berlino dagli uomini alti, poliglotti, viaggiatori, biondocenere, vissuti. Insomma fichi.
E sposati.

Berlino dei vegan-kebab, vegan-bratwurst, vegan-cappuccino, vegan-tutto-quello-che-ti-pare. Specialmente a Warschauerstrasse. Berlino dei ristoranti thai e vietnamiti, dell'Asia-low-cost in box, in barattolo, in cartone. Sappi che solo per questo mi ti sposerei. Figurati per tutto il resto. 

Berlino dei vagabondi, dei senza tetto, degli artisti di strada. Della street art. Di Friedrichshain e Kreuzberg, che mi hanno rubato il cuore e per fortuna non il portafogli. Ma soprattutto di Prenzlauerberg, il quartiere dei balocchi, dei bambini, dei radical chic, dei vegani e di Alice.

Berlino dei pettegolezzi, in un caldo salottino dell'est, arredato Ikea. Dove i nostri più-o-meno trent'anni si sono incontrati per parlare di storia, quotidianità, viaggi, buoni propositi e puntini-puntini.

Aufwiedersehen
Und Danke sehr.

giovedì 20 marzo 2014

Mordetemi!

Perché senno io continuo a pensare che sia tutto un sogno.
La mia giornata inizia di un presto che quasi non si può descrivere. Sono le cinque della mattina e io non oso ribellarmi alla sveglia. Passano quattordici ore - non esattamente con questa facilità - ed è già mezzanotte. Sì, con la matematica son sempre stata una schiappa ma non stavolta. Perché stavolta mi trovo nel futuro. E precisamente a Tokyo.
Mordetemi, dai.

Da questo momento a quello in cui varcherò la soglia della mia confortevole dimora giapponese passa un'altra buona ora e mezza fredda, gelida e piena di fame, come-sempre-valigie-pesanti e un po' di traffico. Dalle poche soste in mezzo a questo traffico, che tutto sommato è scorrevole, cerco di farmi una prima impressione, come se non ci fosse tempo da perdere. Ma in realtà è troppo buio e io sono troppo stanca e in fondo mi dico che tutto questo mio viaggiare non è altro che una prima impressione, quando va bene. Quindi non c'è nessun tempo da perdere, ma semmai non resta altro che godere di quel poco disponibile, senza troppa fretta.

La mia esistenza nipponica comincia da una confortevole stanza d'albergo, piccola ma calda e soprattutto situata, per dirla social, nei pressi di Roppongi. Roppongi è un quartiere di Tokyo che fa da sfondo a molte delle infinite e intricate vicende di 1Q84 di Murakami e che, per questo, ha suscitato da subito la mia curiosità. Ma Roppongi non è più quella che Murakami racconta, mi dicono. La mafia non esiste quasi più, o meglio si è spostata e le strade sono pulite e sicure. Sì, ok ma ora per favore ora lasciatemi ai miei sogni. Vuoi mettere, passare una notte tra le stesse vie che hanno ospitato le gesta dell'indomabile Aomame?

Il mio ingresso nelle sempre-faighe-stanze-da-principessina-viziata assume ormai i tratti di un rito che vede  susseguirsi in sequenza precisa il lancio della scarpa, la liberazione dal solito antipatico collant che si vanta di proteggere le mie gambe dagli effetti della pressurizzazione e l'apertura delle tende. Guardo fuori e mi sento a Parigi. La Tokyo Tower vista la sera è la Tour Eiffel in miniatura, o almeno così la vedo io. Non che il panorama sia particolarmente affascinante, anzi è praticamente la norma, il paesaggio medio osservabile dalle suddette stanze, ma stavolta contribuisce ad arricchire il mio piano da viaggiatrice mordi-e-fuggi di una tappa in più. Ed è il primo fuoriprogramma delle mie quarantottore nella terra del sol levante.



Il secondo mi si presenta a colazione quando, una volta ancora non avendo osato, in nome della fame e della città che attendevo da circa una vita, opporre resistenza alla sveglia, scopro di non essere l'unica ad aver avuto questa idea. Io, che mi sentivo l'eroina delle albe nipponiche, la mattiniera paladina del mancato senso della mappa, che non vedevo l'ora di poter mettere all'opera una volta ancora le mie scarsissime capacità di orientarmi, mi vedo costretta, un po' per cortesia e un po' per curiosità, a condividere il mio personalissimo programma per la giornata. Mi ritrovo così con un secondo caffé nella tazza e con una compagna di viaggio che, soddisfatta del mio itinerario, decide che diventerà anche il suo. Ma prima mi tenta: Shinjuku! Dai vieni con me a Shinjuku! E di nuovo un po' per cortesia, ma soprattutto per curiosità, decido di cedere. Shinjuku è il centro amministrativo di Tokyo, un insieme di grattacieli alti e ordinati, grigi e severi, che era stato escluso dalla mia lista più per mancanza di tempo che di interesse. Ma, mi informa la mia imprevista compagna di avventura, possiamo entrare nel Palazzo del governo metropolitano e da lì possiamo vedere tutta Tokyo dall'alto. E così sia. Il mio programma si arricchisce di un altro panorama-dei-soliti e di un sì-ci-sono-stata.



Da questo momento però decido io, mi dico, mentre un ascensore veloce e silenzioso, ci trasporta giù dal non-mi-ricordo-che-piano del Palazzo governativo. E la suddetta compagna, soddisfatta la sua richiesta, si dimostra in effetti disponibile a seguirmi e molto più brava di me con le mappe. Procediamo così, raccontandoci le nostre vite con la stessa consapevolezza di chi solo per oggi si tiene compagnia, verso il quartiere di Shybuya, più precisamente verso Harajuku, la patria della sottocultura metropolitana di Tokyo. Harajuku girls le chiamano qui, Cosplay nel resto del mondo. Sono le “ragazzine eccentriche” che tutti i weekend popolano Takesita Dori intente a colorare i loro look - o decolorarli, a seconda dei casi e dei gusti - con abiti e accessori che dio-me-ne-scampi. Quasi a restituire a Shybuya la normalità perduta e il senso della cultura tradizionale, il parco di Yoyogi è un'oasi sileziosa, popolata da fedeli in preghiera nell'omonimo tempio e turisti curiosi, intenti perlopiù a far trascrivere i loro desideri.


Il verde di Yoyogi, si ritrasforma però presto in tutti-i-colori-che-ti-pare quando, instancabili maratonete della nostra giornata orientale, riusciamo a raggiungere il centro del quartiere. E mi dico che ho trovato un altro posto al mondo che più che un posto è gente. A stare fermi al semaforo di Shybuya crossing quando diventa verde si entra in pa-ni-co. Un'ondata di gente sembra volermi investire, non posso muovermi in nessuna direzione finché il semaforo non torna rosso di nuovo. Intorno a questo incrocio si è creato un vero e proprio business perché i ristoranti e i locali all'interno delle costruzioni circostanti ti offrono un posto in vetrina in modo che tu possa ammirare lo spettacolo dall'alto. Proviamo a farlo anche noi, ma ovviamente i posti in vetrina sono terminati, quindi ci accontentiamo dell'angolino rimasto.


Any vegetarian sushi? E qui partono occhiate più che diffidenti o perplesse, impaurite. Laddove altri si sarebbero sentiti offesi nel profondo dalla sottoscritta miscredente, eretica, mangia-erba, il nostro simpatico cameriere  quasi non si sente in grado di soddisfare la mia richiesta. Per questo motivo, mi offre in omaggio un piatto di croccante tempura vegetale in aggiunta ai maki di avocado da me richiesti che già da soli sfioravano la perfezione, per figura, gusto e presentazione. Arigato, gli dico, cercando inutilmente di offrirgli la mia mancia riconoscente. Mi saluta sorridente, confidandomi sottovoce che qui le mance sono un atto di scortesia. Ah.

Con questo boccone squisito e gentile si conclude quindi la prima parte della mia due giorni giapponese che sarebbe troppo lunga per essere vera se non fosse intramezzata da un ritorno in terre mediorientali. La solita trafila di vi-prego-lasciatemi-qui, traffico, valigie, voli, stanchezze varie ed eventuali per poi ritrovarmi dopo qualche giorno, di nuovo a Tokyo e, finalmente, viaggiatrice solitaria. Il mio percorso ricomincia dai sakura quasi in fiore del parco di Ueno. E mi dico che sono la solita sfigata. Sì, sfi-ga-ta. Nei pochi giorni di pausa tra le mie due Tokyo mi sono persa la neve. E adesso, per pochi giorni, mi perdo pure la primavera.


Il quartiere di Ueno oggi è comunque così solare e colorato che decido di perdermi deliberatamente. Metto via la mappa, che-tanto-non-cambia-granché, e mi faccio guidare dai colori intorno. Mi ritrovo circondata da schermi giganti, mercatini e musica orribile. Mi nutro di trashate e sottocultura. Compro te verde e oggetti inutili-ma-carini. Prendo una metro a caso e osservo la gente salire e scendere. Portano quasi tutti una mascherina per proteggere la propria salute e la propria pelle e, mi viene da pensare, un po' per moda.



La metro a caso era quella giusta e la voce giovane che annuncia la fermata Asakusa mi ricorda che per perdersi veramente non bisogna programmare di farlo. Il tempio buddista di Asakusa Kannon era un must nella mia lista ed eccomi qua, di fronte alle istruzioni per l'uso che recitano bow twice, clap your hand twice and bow again. Mi avventuro nella schiera di fedeli e turisti curiosi che camminano disordinatamente tra un inchino e un souvenir. Gli omaggi alla dea Kannon sono un rito e un'attrazione, le bancarelle intorno un business riuscito. Il profumo delle cibarie circostanti mi fa venire fame e decido di precipitarmi nell'unico ristorante che si proclama veg-friendly. Le mie speranze di poter finalmente gustare una bento-box cento per cento veg risultano comunque completamente vane perché in realtà la scelta vegetariana è ridotta a due sole opzioni e i rapporti umani che pochi giorni prima si erano espressi nella gentile apprensione del mio amico cameriere si riducono stavolta a un pulsante da schiacciare per scegliere il tuo piatto preferito. Che arriva a distanza di quindici minuti, con una bottiglia d'acqua in omaggio e un inchino di circostanza. Perché anche il consumismo qui, prova a esserti gentile.

venerdì 21 febbraio 2014

Cara Europa, ti scrivo

Di sole, neve, pioggia. Té e birra. Spritz e Sangria. Gauffre e odore di burro per le strade, ma talmente tanto che ti senti grassa al solo respirare. Di estati afose e inverni gelidi. Di teste bionde, brune, rosse, qualche lentiggine e quelle gote rosse, per natura, vino o vergogna. Di cose che funzionano, o molto bene o molto male. Di tutto un po'. E a volte anche più di un po'.

Cara Europa, sei quel bagaglio di persone, cose, posti sapori, profumi e bla bla vari che formano una nostalgia indiscussa, ma che sarebbe noioso dipingere come pura e immacolata. Perché in realtà sei un'indecisa cronica e una lunatica senza scampo e me ne hai fatto passare delle belle. Cara Europa, me la spasso di brutto in giro per l'Asia, lo sai? Sì, anche qui ogni tanto ne passo delle belle, ma almeno piove poco. E comunque, cara Europa, sarai sempre le mie primavere e i miei autunni preferiti. Sei come quella da cui tutti tornano, quindi per oggi ti scrivo.

Cara Amsterdam, comincio da te. Perché il primo amore non si dimentica e la prima sbronza nemmeno. Sei quella storia dei muffin aromatizzati alla frutta che mi raccontarono qualche ruga fa. Risposi con gli occhi rossi, e non di emozione. Con una ridarella lunga un giorno intero e il mal di testa più forte della mia vita. Poi ti ho rivisto da sobria e sei sempre la solita scema, anche se non mi freghi più. Te la piovevi di brutto e non è una novità. Te la ridevi di brutto, e anche questa non è una novità.

Cara Bruxelles, cara Maastricht, siete l'Europa che ho sognato per un'università intera. Così formali di giorno, così ubriache la sera. Mi avete insegnato il diritto e la birra, la diplomazia e la sangria. Vi sogno ancora in segreto, qualche volta, nonostante i grattacieli e le nuove prospettive.
Cara Berlino, tu invece sei il mio sogno dichiarato. Sei la Disneyland dei miei quasi trent'anni. Sei come tutta l'Europa vorrei che fosse, sotto il sole, la pioggia, a quaranta o meno dieci gradi. Se ti dovessi descrivere come una donna, saresti una ragazza castana, i capelli lunghi e la frangia che va in giro sfidando la pioggia sotto cappotti e cappelli colorati. Saresti una lettrice incallita e una grande artista. Una scrittrice, una pittrice, una fotografa, una cuoca. Probabilmente mancheresti di costanza, ma non certo di inventiva.

Cara Londra, cara Birmingham, Cara Inghilterra, com'è? Piove sempre da quelle parti? Volevo dirvi due cose. Che a lungo non vi ho considerato Europa, ma che se ora dovessi tornare mi sentirei praticamente di casa. E che il mio ultimo ombrello è già arrivato al suo terzo mese di vita. Inoltre dopo essermi confrontata con l'inglese di mezzo mondo devo ammettere che il vostro accento non è il peggiore. Non montatevi la testa ora però.

Cara Parigi, mi dispiace ma non saresti mai il mio viaggio di nozze, né quello di laurea che ancora devo fare. Saresti però molti dei miei weekend. Camminerei lungo la Senna fino a farmi venire le bolle ai piedi. Ti fotograferei al tramonto da ogni singola angolazione, e sotto la pioggia da dietro una vetrina di un ristorante a Mont Martre. A mangiare zuppa di cipolla. Sì, di cipolla.

Cara Zurigo, mi hai messo il broncio quando ci siamo incontrate e poi torno e mi sorridi di un sole che a spaccare le pietre almeno voleva provarci. Sì, lo so, tra lunatiche ci si intende, quindi è comunque stato un piacere.

Cara Lisbona, sei stata come un appuntamento perfetto. Quello che ci vai piena di dubbi e poi torni ubriaca e felice. Curiosa, figa e con l'autostima alle stelle. Quello che il trucco ha resistito tutta la sera. Quello che proprio non vedo l'ora di rivederti, lo sai?

Cara Italia, lo sai che a Dubai ho mangiato la pizza più buona di tutta la mia vita? E lo sai che a casa ormai cucino più curry che pasta? Lo sai che di fronte a una pad thai impazzisco quanto di fronte a una focaccia? Cara Sardegna, il mare delle Mauritius era cristallino anche lui, la sabbia era più chiara e c'erano gli alberi di mango ai bordi delle strade. Quando ho chiesto il menù vegetariano mi hanno detto che non lo avevano. Ma mi hanno impastato a mano un hamburger di lenticchie e fagioli senza fare troppe domande sul perché e per come non mi andasse di mangiare il pollo o il pesce spada comportandomi da eretica verso le loro tradizioni secolari. E poi mi dispiace, ma lo devo ammettere: il Porto mi piace più del Cannonau, la Leffe più dell'Ichnusa. Però cara Cagliari, mi diverto un sacco a sfoggiare il tuo accento con i miei confidenti migliori in queste terre lontane, a seconda dei casi nei momenti di gioia, divertimento o disperazione. Pace, adesso?


sabato 4 gennaio 2014

Prigioniere di Manhattan

Non importa come la vedi tu, ok? New York ti vuole con il naso all'insù. Il tuo tempo, il tuo stato d'animo, le tue intenzioni sono tutte cose totalmente irrilevanti. Devi. Guardare. In alto. New York vuole che tu la guardi dal basso. E tu puoi convincerti che te ne frega un accidenti a te di tutta questa spavalderia, ma fidati, sarà più forte di te.

Detto questo, New York, nella fattispecie Manhattan semplicemente mi sembra. Esattamente come mi sembrava l'Africa qualche mese fa. E non nel senso che mi sembrano la stessa cosa. Ma nel senso che entrambe, per ora, semplicemente mi sembrano qualcosa. Qualcosa di leggendario e molto credibile. Quel qualcosa che hai sempre creduto fosse così per via dei racconti che hai fatto tuoi grazie alle interpretazioni convincenti di chi c'è stato prima di te e le ha tradotte in film e libri in particolare.

Just like in the movies, i taxi gialli sono come formiche, il cittadino medio cammina velocemente portando con se un caffè caldo e i tombini fumano.

Per me Manhattan è femmina. E me la immagino bella e dannata. Figa, spavalda, ma meno sicura di quello che mostra. Indossa tailleur e tacchi a spillo la mattina. Le sue labbra carnose sorseggiano caffè caldo in maniera compulsiva. La sera fa bagni lunghi e sorseggia Martini bianco. Mi sta un po' sulle palle, ma in realtà vorrei conoscerla meglio perché non riesco a smettere di osservarla e vorrei saper camminare sui tacchi come fa lei. Truccarmi come fa lei. Fregarmene come fa lei. Ha un sacco di debolezze, secondo me. Ma proprio per questo voglio credere che sia umana e magari potremmo essere anche amiche, un giorno.

Però comunque mi chiedo, cos'è tutto questo quaraquaquà del capodanno a New York? Sì ho fatto il Capodanno a New York e non mi sento per niente figa. Perché ho girato in rettangolo per una giornata intera tra le poche vie accessibili di Manhattan. E il rettangolo diventava sempre più piccolo a ogni ora. A Capodanno tu Time Square la vedi da così lontano che fai prima a comprarti una cartolina. Capodanno a New York è polizia e tutti fermi, retromarcia, fammivedereilpassaportoaprilaborsanontimuoveredalì. A Capodanno io sono morta di curiosità a New York, capito? E non perché non ho visto la ball drop in Time Square, che a me il countdown e le 00:00, anche no eh. Ma perché più che altro ho visto così poco che ci devo. tornare. al più presto.


Io e Jessica, esattamente quelle che in Africa sono state le europee, l'attrazione del pomeriggio, ci siamo ritrovate prigioniere di Manhattan. Abbiamo vagato stanche, col fuso, quello pesante proprio. Affamate e curiose. Ma tu cosa credi? Ci sentiremo un po' come in Sex and the City?Anche loro avevano tutti quegli amori sbagliati da raccontarsi, divertite e speranzose come ci sentiamo noi oggi. L'Empire state building, le patatine fritte e il brindisi in anticipo, che a Dubai è già mezzanotte. E adesso anche in Italia. E poi la neve. Ma davvero?! Siamo così contente che uno sconosciuto si offre di fotografarci e si diverte parecchio pure lui. Sì ho capito che ti stiamo simpatiche ma ora ridammi il mio iPad. E buon anno pure a te.



venerdì 20 dicembre 2013

Un buon Non-natale

L'intento era quello di farla suonare più o meno come http://www.youtube.com/watch?v=L8UdmuefTlI. Ma in realtà credo che il risultato sia assai meno melodico e molto più cinico. Però rende bene l'idea, che non è un'idea che in fondo mi dispiace. Fare ironia, talvolta sarcasmo, su giornate un po' così, è solo un modo per non renderle drammatiche. Per farle passare e scorrere, come certi spumanti a Capodanno, che sono troppo secchi, ma che vanno giù in nome della compagnia, col naso tappato e gli occhi strizzati in una smorfia brevemente sofferente ma solidale al comune gaudio.

C'è chi per il vostro, a scelta, Natale o Non-Natale ha fatto, scritto, letto cose meravigliose e merita uno sguardo. Andate a trovare le sempreverdi Giulia e Camilla, alias Zelda, per esempio. E poi ci sono io, che continuo a fare solo casini. E che ogni volta che faccio casini per non soccombere leggo, per rinascere provo a scrivere.

Dal mio canto, anche io voglio provare a fare la mia parte. E voglio farlo per il Non-natale di qualcuno. Parlo dunque in particolare ai più, a seconda dei casi, sfortunati, sfi-ga-ti, tristi, depressi, svogliati, stanchi, anti-social. A chiunque non ama le feste. A chi pensa di non avere motivi per amare in generale. Agli in-si-curi, ai pessimisti, ai delusi. A tutti quelli che ritengano di rientrare nella categoria del non-natalizio-per-scelta-o-per-forza. Lo faccio tradento l'influenza delle maestre di cui sopra. But I wanna be faiga, one day.

Fatevi un favore, leggete da morire. Ogniqualvolta i pensieri, le persone, i fatti, i sentimenti stanno per prendere il sopravvento su di voi, chiudete la porta e aprite il libro. Per darvi qualche spunto e togliervi qualche scusa, io ultimamente ho una relazione affiatata con la genialità di Murakami. 1Q84, mille e passa pagine che sembrano sfiorare il ca-po-la-voro. Ringrazio chi mi ha regalato il terzo volume ignorando che non possedessi i primi due: mi hai tolto molte scuse e tante ore di noia. Per gli amanti della concisione, Murakami normalmente non si perde in troppe chiacchere e vi aspettano una mare di duecento-pagine-massimo, pronte ad allietarvi i pomeriggi o quello che vi pare.
I buoni propositi, poi. Quelli funzionano sempre. Sono un modo per andare avanti e ingannare il tempo. Sono un modo per almeno-provarci, per cominciare. Senza la sveglia alla mattina probabilmente vi alzereste ancora più tardi di quello che riuscite a fare con la sveglia. O se proprio non volete saperne di quelli buoni, i cattivi propositi rimangono sempre una buona idea. Rimpinzatevi, ubriacatevi, divertitevi, make of your own melancholy the pleasure of being sad.

Rinsavite, poi. Tornate a leggere e fate le cose che vi appartengono. Se ciò che fate per sopravvivere non vi appartiene, rendetelo il più interessante possibile, o il meno traumatico possibile. Ma vivete solo per ciò che è profondamente vostro e non dimenticate mai cosa vorreste essere, avere, diventare. Reinventatevi sempre e comunque e rispondete ai cattivi pensieri con la creatività. Tenete impressi nella memoria i vostri modelli da seguire e lasciate che vi parlino a ogni difficoltà. Rendeteli vivi e personali, condendoli con le vostre particolarità. Non dimenticate poi che l'ironia è sempre la cura alle cose più brutte. Come il fard fa sulle gote più pallide, o una cravatta allentata su un petto troppo formale.

Vi auguro un buon Non-natale, ovunque voi siate, comunque voi vi sentiate.


domenica 10 novembre 2013

Behind

Io non lo so cosa mi balla in testa.
Suona quasi bene come chissà cosa bolle in pentola. 
È da perderci tutte le rotelle per la curiosità, da acquolina in bocca, da dita che galoppano nervosamente sul tavolo. Da coltello e forchetta puntati come quando aspettavi le patatine fritte.

Invece poi è tipo bordino di pollo.
O uova sode.
O latte.
Che schifo, insomma.

Comunque, a parte le metafore, nessuna delusione culinaria.

Ho peccato di pigrizia dalla comodità di un letto cantonese, concedendomi la mia trentottesima ora di veglia per crogiolarmi in un curry di patate e broccoli a ritmo di Alanis Morrisette. La mattina dopo mi sono svegliata di soprassalto, come quando sogni di cadere, e mi son resa conto di non aver ancora aperto le tende per guardare fuori. Una tragedia, insomma. Un segnale chiaro che c'è qualcosa che non va.

Comunque poi le ho aperte e c'ho bevuto un'intera tazza di tè verde di fronte. Un grattacielo con una scritta blu in cinese è stata la giusta punizione. Ho quasi sentito i vetri sghignazzare, ehi tu beccati questa! 




Senza nemmeno osare look troppo presentabili, ho abbozzato una treccia e deciso di capire cosa ci fosse dietro quel grattacielo.  C'era una scuola in una piccola collina, e delle adolescenti che giravano in minigonna e calze al ginocchio. Ho camminato per un'altra ora senza meta precisa ma con un occhio al grattacielo bacchettone, giusto per non perdermi. Ho riconquistato il panorama perduto. Poi ho mangiato un dragon fruit color porpora e sognato sushi e tempura che poi mi sono concessa di ritorno in terre arabe. 

C'è qualcosa di instancabile nella cucina giapponese. 
È un po' come i Beatles, non passa mai.