Alla stazione dei treni, seduta su una valigia molto pesante, con un
francese che mi parlava italiano: la mia little dirty Brussels l’ho salutata
così. Alle quattro del mattino, assonnata, agitata, incuriosita e con in mano
un biglietto per Londra. Avrei sentito una lingua diversa, ma la musica sarebbe
stata la stessa: sta-gis-ta.

Centocinquanta sfumature di grigio, nonodiatemiviprego, colorano
il cielo di Bruxelles. Può essere grigio chiaro, grigio scuro, bianco-grigio,
ma quasi sempre grigio è. Un manto grigio che ti nebulizza pioggia addosso in
con-ti-nua-zio-ne. Pochi mesi dopo l’avrei rimpianta, quella pioggia, sotto i
miei mille ombrelli distrutti under the storm a Bemi.
La Bruxelles del weekend, invece, mi ha spedito in giro per l’Europa,
al freddo di Anversa e di Gand, mi ha invitato a varcare i confini francesi e a
ricordare le mie sbronze erasmusiane, a Maastricht, per un giorno. La Bruxelles
del weekend è sporca, pericolosa e ubriaca. Sa di frites e di kebab, ma se
guardi bene c’è anche il libanese e l’etiope: entra, non te ne pentirai.
La Bruxelles che ricordo è stata anche un po' ansiosa, perché il futuro albionico faceva paura. Non è stato così male, invece, ma comunque tornerò.
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