Perché senno io continuo a pensare che sia tutto un sogno.
La mia giornata inizia di un presto che quasi non si può descrivere.
Sono le cinque della mattina e io non oso ribellarmi alla sveglia.
Passano quattordici ore - non esattamente con questa facilità - ed è
già mezzanotte. Sì, con la matematica son sempre stata una schiappa
ma non stavolta. Perché stavolta mi trovo nel futuro. E precisamente
a Tokyo.
Mordetemi, dai.
Da questo momento a quello in cui varcherò la soglia della mia
confortevole dimora giapponese passa un'altra buona ora e mezza
fredda, gelida e piena di fame, come-sempre-valigie-pesanti e un po'
di traffico. Dalle poche soste in mezzo a questo traffico, che tutto
sommato è scorrevole, cerco di farmi una prima impressione, come se
non ci fosse tempo da perdere. Ma in realtà è troppo buio e io sono
troppo stanca e in fondo mi dico che tutto questo mio viaggiare non è
altro che una prima impressione, quando va bene. Quindi non c'è
nessun tempo da perdere, ma semmai non resta altro che godere di quel
poco disponibile, senza troppa fretta.
La mia esistenza nipponica comincia da una confortevole stanza
d'albergo, piccola ma calda e soprattutto situata, per dirla social,
nei pressi di Roppongi. Roppongi è un quartiere di Tokyo che fa
da sfondo a molte delle infinite e intricate vicende di 1Q84 di
Murakami e che, per questo, ha suscitato da subito la mia curiosità.
Ma Roppongi non è più quella che Murakami racconta,
mi dicono. La mafia non esiste quasi più, o meglio si è spostata e
le strade sono pulite e sicure. Sì, ok ma ora per favore ora
lasciatemi ai miei sogni. Vuoi mettere, passare una notte tra le
stesse vie che hanno ospitato le gesta dell'indomabile Aomame?
Il mio ingresso nelle sempre-faighe-stanze-da-principessina-viziata
assume ormai i tratti di un rito che vede susseguirsi in sequenza
precisa il lancio della scarpa, la liberazione dal solito antipatico
collant che si vanta di proteggere le mie gambe dagli effetti della
pressurizzazione e l'apertura delle tende. Guardo fuori e mi sento a
Parigi. La Tokyo Tower vista la sera è la Tour Eiffel in miniatura,
o almeno così la vedo io. Non che il panorama sia particolarmente
affascinante, anzi è praticamente la norma, il paesaggio medio
osservabile dalle suddette stanze, ma stavolta contribuisce ad
arricchire il mio piano da viaggiatrice mordi-e-fuggi di una tappa in
più. Ed è il primo fuoriprogramma delle mie quarantottore nella
terra del sol levante.
Il secondo mi si presenta a colazione quando, una volta ancora non
avendo osato, in nome della fame e della città che attendevo da
circa una vita, opporre resistenza alla sveglia, scopro di non essere
l'unica ad aver avuto questa idea. Io, che mi sentivo l'eroina delle
albe nipponiche, la mattiniera paladina del mancato senso della
mappa, che non vedevo l'ora di poter mettere all'opera una volta
ancora le mie scarsissime capacità di orientarmi, mi vedo costretta,
un po' per cortesia e un po' per curiosità, a condividere il mio
personalissimo programma per la giornata. Mi ritrovo così con un
secondo caffé nella tazza e con una compagna di viaggio che,
soddisfatta del mio itinerario, decide che diventerà anche il suo. Ma prima mi tenta: Shinjuku! Dai vieni con me a Shinjuku! E di nuovo un po' per cortesia, ma soprattutto per curiosità, decido di cedere. Shinjuku è il centro amministrativo di Tokyo, un insieme di grattacieli alti e ordinati, grigi e severi, che era stato escluso dalla mia lista più per mancanza di tempo che di interesse. Ma, mi informa la mia imprevista compagna di avventura, possiamo entrare nel Palazzo del governo metropolitano e da lì possiamo vedere tutta Tokyo dall'alto. E così sia. Il mio programma si arricchisce di un altro panorama-dei-soliti e di un sì-ci-sono-stata.
Da questo momento però decido io, mi dico, mentre un ascensore
veloce e silenzioso, ci trasporta giù dal non-mi-ricordo-che-piano
del Palazzo governativo. E la suddetta compagna, soddisfatta la sua
richiesta, si dimostra in effetti disponibile a seguirmi e molto più
brava di me con le mappe. Procediamo così, raccontandoci le nostre
vite con la stessa consapevolezza di chi solo per oggi si tiene
compagnia, verso il quartiere di Shybuya, più precisamente verso
Harajuku, la patria della sottocultura metropolitana di Tokyo.
Harajuku girls le chiamano qui, Cosplay nel resto del mondo. Sono le
“ragazzine eccentriche” che tutti i weekend popolano Takesita
Dori intente a colorare i loro look - o decolorarli, a seconda dei
casi e dei gusti - con abiti e accessori che dio-me-ne-scampi. Quasi a restituire a Shybuya la normalità perduta e il senso della cultura
tradizionale, il parco di Yoyogi è un'oasi sileziosa, popolata da
fedeli in preghiera nell'omonimo tempio e turisti curiosi, intenti
perlopiù a far trascrivere i loro desideri.
Il verde di Yoyogi, si ritrasforma però presto in
tutti-i-colori-che-ti-pare quando, instancabili maratonete della
nostra giornata orientale, riusciamo a raggiungere il centro del
quartiere. E mi dico che ho trovato un altro posto al mondo che più
che un posto è gente. A stare fermi al semaforo di Shybuya crossing
quando diventa verde si entra in pa-ni-co. Un'ondata di gente sembra
volermi investire, non posso muovermi in nessuna direzione finché il
semaforo non torna rosso di nuovo. Intorno a questo incrocio si è
creato un vero e proprio business perché i ristoranti e i locali
all'interno delle costruzioni circostanti ti offrono un posto in
vetrina in modo che tu possa ammirare lo spettacolo dall'alto.
Proviamo a farlo anche noi, ma ovviamente i posti in vetrina sono
terminati, quindi ci accontentiamo dell'angolino rimasto.
Any vegetarian sushi? E qui
partono occhiate più che
diffidenti o perplesse,
impaurite. Laddove altri si sarebbero sentiti offesi nel profondo
dalla sottoscritta miscredente, eretica, mangia-erba, il nostro
simpatico
cameriere quasi non si
sente in grado di soddisfare
la mia richiesta. Per questo motivo, mi offre in omaggio un piatto di
croccante tempura vegetale in aggiunta ai maki di avocado da
me richiesti che già da soli
sfioravano la perfezione, per figura, gusto e presentazione. Arigato,
gli dico, cercando inutilmente di offrirgli la mia mancia
riconoscente. Mi saluta sorridente, confidandomi sottovoce che qui
le mance sono un atto di scortesia.
Ah.
Con questo boccone squisito e
gentile si conclude quindi la prima parte della mia due giorni
giapponese che sarebbe troppo lunga per essere vera se non fosse
intramezzata
da un ritorno in terre mediorientali. La solita trafila di
vi-prego-lasciatemi-qui, traffico, valigie, voli, stanchezze varie ed
eventuali per poi ritrovarmi dopo qualche giorno, di nuovo a Tokyo e,
finalmente, viaggiatrice solitaria. Il
mio percorso ricomincia dai sakura quasi
in fiore del parco di Ueno. E mi dico che sono la solita sfigata. Sì,
sfi-ga-ta. Nei pochi
giorni di pausa tra le mie due Tokyo mi sono persa la neve. E adesso,
per pochi giorni, mi perdo pure la primavera.
Il quartiere di Ueno oggi è
comunque così solare e colorato che decido di perdermi
deliberatamente. Metto via la mappa, che-tanto-non-cambia-granché, e
mi faccio guidare dai colori intorno. Mi ritrovo circondata da
schermi giganti, mercatini e musica orribile. Mi nutro di trashate e
sottocultura. Compro te verde e oggetti inutili-ma-carini. Prendo una
metro a caso e osservo la gente salire
e scendere. Portano quasi
tutti una mascherina per proteggere la propria salute e la propria
pelle e, mi viene da pensare, un po' per moda.
La metro a caso era quella giusta e la voce giovane che annuncia la fermata Asakusa mi ricorda che per perdersi veramente non bisogna programmare di farlo. Il tempio buddista di Asakusa Kannon era un must nella mia lista ed eccomi qua, di fronte alle istruzioni per l'uso che recitano bow twice,
clap your hand twice and bow again.
Mi avventuro nella schiera di fedeli e turisti curiosi che camminano
disordinatamente tra un inchino e un souvenir. Gli omaggi alla dea
Kannon sono un rito e un'attrazione, le bancarelle intorno un
business riuscito. Il profumo
delle cibarie circostanti mi fa venire fame e decido di
precipitarmi nell'unico ristorante che si proclama
veg-friendly. Le mie speranze
di poter finalmente gustare una bento-box cento per cento veg risultano comunque completamente vane perché in
realtà la scelta vegetariana è ridotta a due sole opzioni e
i rapporti umani che pochi giorni prima si erano espressi nella
gentile apprensione del mio amico cameriere si riducono stavolta a
un pulsante da schiacciare per scegliere il tuo piatto preferito. Che
arriva a distanza di quindici minuti, con una bottiglia d'acqua in
omaggio e un inchino di circostanza. Perché anche il consumismo qui, prova a esserti gentile.
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