lunedì 31 dicembre 2012

La bella addormentata non porta calze nere




Il pubblico era lì tutto per lei, compresa me. Mi ci hanno portata, un regalo di Natale in anticipo, una serata diversa, elegante, mondana. Perché non hai fatto danza? Che il teatro ti si addice. Dai, fatti lo chignon. No, non hai ancora capito niente, ma comunque gradisco – e tanto -  il regalo. E mi faccio lo chignon.

E quindi il pubblico era lì per lei, per ammirarla, apprezzarla, applaudirla come da copione. Perché tanto lo sapevano già tutti che lei è una principessa.  Io, invece, ero lì per osservarla. E posso dirlo, la bella addormentata non porta calze nere. Non le porta sul palco, e forse non le porta proprio mai. La bella addormentata porta il tutù celeste e le calze bianche. Sta in equilibrio minuti interi, è agile, bella e sicuramente brava a scuola. È giovane e magra. È anche bassa, ma le punte dei suoi piedi sono fatte per elevarla all’infinito – secondo il pubblico – e per farla roteare come una trottola – secondo me. Però dai, è brava. O almeno credo.

Ma veniamo alle calze. Sono  b i a n c h e. E poi mi chiedi perché non ho fatto teatro. La calza nera è per me una sorta di credo, che supera la moda del momento e che merita una fedeltà pari a quella per lo skinny jeans scuro, amico inseparabile di molti stivali, zeppe, converse, decolleté o chi per loro. La calza nera è giorno e notte perché va bene con tutto. La calza nera è inverno, e a me piace così.

I collant bianco candido della bella addormentata le conferiscono l’aspetto principesco voluto. Lei è bella, aggraziata, piccola. Dolce. Lei è un confetto. Le sue calze raccontano di sbarre e specchi, di caviglie e piedi dolenti dolenti.  Le calze nere, quelle che dico io e per-come-le-vedo-io, invece, parlano di tutt’altro. Parlano di tutto-un-po’. Tipo: piedi dolenti perché suitacchichecivaiafare, di pioggia inaspettata e mosocazzitua, di datemi-un-martello checosanevuoifare? A dire il vero saprei pure cosa farmene. Di ma-perché-oggi-non-ho-messo-i-jeans?

Le calze bianche danno alla principessa forse qualche anno in meno di quelli che realmente ha. Sedici, dovrebbero essere e 4 i principi che la corteggiano. Ma lei, fa la splendida. Balla, sorride, tocca un fiore, si addormenta, balla ancora e dorme di nuovo. Si sveglia dopo 99 anni di sogni d’oro, le stesse calze, lo stesso chignon perfetto –chedelmioselarideacrepapelle- e qualcuno è già innamorato di lei. Ma come fai, principessa?

Io, sudo. Le calze, nere, fanno caldo e il coprispalle pure. Trattengo uno sbadiglio di troppo. Inizio ad abituarmi alla musica e a guardarmi intorno. Sono tutti o vecchi o marmocchi. Mi rigiro. Un principe biondeggiante bacia la principessa, la bacia quasi per finta. Ma comunque sembra che la baci. Allora, il principe ha: due metri di altezza, la muscolatura scolpita, capelli lunghi, biondi e occhi azzurri mi pare. E un gran bel culo. Oltre che calze bianche. Pure lui. E scintillanti, giusto per rendere l’idea.

Le mie calze nere, invece, si confondono con il buio della platea. Sono la storia della mia vita, meno che della mia infanzia, dove  qualcuno ha provato a farmele indossare bianche nel vano tentativo di farmi diventare una principessa. E la storia della mia vita non ha mai conosciuto principi né piroette, graziealcielo. Loro, invece, cominciano a roteare insieme, senza quasi sfiorarsi, ballando di un amore platonico che dura almeno un’altra mezzora. Poi comincia l’andirivieni dettato dagli applausi del pubblico in composto delirio. E poi, dicono, vissero tutti felici e contenti.

venerdì 14 dicembre 2012

Tribute to Brussels



Alla stazione dei treni, seduta su una valigia molto pesante, con un francese che mi parlava italiano: la mia little dirty Brussels l’ho salutata così. Alle quattro del mattino, assonnata, agitata, incuriosita e con in mano un biglietto per Londra. Avrei sentito una lingua diversa, ma la musica sarebbe stata la stessa: sta-gis-ta.


I miei ricordi di Bruxelles parlano anch’essi quasi tutti italiano. E sono fatti di birra, gauffres e sta-gis-ti come me. Cominciano con una ragazza, veneta, madonnaquantèmagra e chebbellisuoicapelli, che mi apre la porta e inizia a condividere con me la nostra ansia in comune: non abbiamo una casa. Non sapevo ancora che di lì a cinque giorni avrei condiviso con lei la cucina - onta, il mocho e la puzza di broccoli per casa. Excuse-moi cinderella.


Centocinquanta sfumature di grigio, nonodiatemiviprego, colorano il cielo di Bruxelles. Può essere grigio chiaro, grigio scuro, bianco-grigio, ma quasi sempre grigio è. Un manto grigio che ti nebulizza pioggia addosso in con-ti-nua-zio-ne. Pochi mesi dopo l’avrei rimpianta, quella pioggia, sotto i miei mille ombrelli distrutti under the storm a Bemi.

La Bruxelles che ho visto per cinque giorni alla settimana indossa giacca e cravatta e si sveglia presto alla mattina, che le riunioni cominciano at ten sharp, s’il vous plaît. E’ fatta si ascensori affollati e discorsi difficili, fatti da gente elegante seduta in cerchio. Alta diplomazia, la chiamano, e in teoria sono andata all’università per imparare come funziona. La Bruxelles che ho mangiato a pranzo la ricordo con piacere, quasi come il momento più atteso della giornata, anche perché al Justus Lipsius il menù vegetariano è niente male.

La Bruxelles del weekend, invece, mi ha spedito in giro per l’Europa, al freddo di Anversa e di Gand, mi ha invitato a varcare i confini francesi e a ricordare le mie sbronze erasmusiane, a Maastricht, per un giorno. La Bruxelles del weekend è sporca, pericolosa e ubriaca. Sa di frites e di kebab, ma se guardi bene c’è anche il libanese e l’etiope: entra, non te ne pentirai. 


La Bruxelles che ricordo è stata anche un po' ansiosa, perché il futuro albionico faceva paura. Non è stato così male, invece, ma comunque tornerò.

domenica 9 dicembre 2012

La Redécouverte



Non è stato esattamente così raffinato ed elegante come dirlo in francese, ma, in dieci giorni di pigrizia domestica, ho ri-scoperto parecchie cose, tra cui il tè verde alla vaniglia (comeavevofattoadimenticarlononloso), il mio amore cieco e incondizionato per la Cermania-pronunciata-con-la-C (non l’avevo dimenticato, ma di certo non più coltivato, mannaggiallareginamannaggia)e che se avessi studiato anche il francese sarebbe stata cosa buona e giusta.

Mi sono quindi ritrovata, innanzitutto, complice il gelo e quel cielo grigio che manco ad Albione, ad impregnare le pareti domestiche di profumo alla vaniglia. E mi sono tornate in mente parecchie cose tipo la fase redazione-disperata-della-tesi-triennale dove niente e nessuno mi rendeva più forte di un té. Che fosse verde alla vaniglia, appunto. Mi sono ritornati in mente anche il tè bianco al gelsomino, il te verde cinese e la tisana all’arancia e cannella: madovèchelicompravo?

Ho sorseggiato, larveggiante, la bevanda per pomeriggi interi, buona parte dei quali trascorsi ad ascoltare compulsivamente, a-mo-di-back-street-boys-a-quattordici-anni, le langsam gesprochen nachricten che la Deutsche Welle online propone agli asini-aspiranti-crucchi come me. Le notizie langsam gesprochen, pronunciate lentamente, mi hanno fatto ricordare quanto figa fosse la voce del giornalista. E che, se andavo così bene in tedesco, un po’ era anche grazie a lui, che però disicurononsepòguardà.

Ancora sorseggiando, mi sono riconciliata anche con le newsletter dimenticate nella cartella di posta ricevuta della mia email. Quelle che continuano imperterrite a proporti il lavoro dei tuoi sogni, che però nei tuoi sogni rimarrà perché è essentiel que vous avez une bonne connaissance du français. Vado a fare il tè e comincio da qui: Le fabuleux destin d'Amélie Poulain. En français. 


lunedì 3 dicembre 2012

Bye-bye Bemi Bemi bye Bemi Bemi bye-bye


La vecchia Albione la saluto così, all’improvviso, sconvolta, spettinata, infreddolita, un po’ impaurita. Bye Bye for good, Bemi ho pensato, salendo di fretta sull’aereo. Ma in fondo chi lo sa, ho ri-pensato, sconsolata, alle prime noie domestiche. Odi et Amo è il titolo che potrei dare alla mia esperienza British. Ho amato e odiato: cose, persone, cibi, modi di fare e modi di vivere. Modi di cucinare. Di parlare.

Della grigia Bemi non dimenticherò mai le nuvole, appunto. Nel cielo e nella faccia della gente. Spesso, anche nella mia, così, perché sono addictive, come il gusto delle crisps. Le nuvole si contagiano a Bemi e non è colpa di nessuno. Non dimenticherò il profumo del curry nelle strade, mentre preferirei dimenticare quello del fish and chips. I noodles, i veggie burgers e le chips-senza-fish, mi hanno fatto tanta compagnia, così come chi li ha mangiati con me. Non dimenticherò mai i marciapiedi scivolosi, i miei piedi bagnati e le scarpe rotte, non una, ma almeno tre volte. Così come gli ombrelli.

L’Inghilterra è stata un continuo raffreddore, una continua allergia a quella moquette polverosa e un continuo detestare i broccoli stracotti con la gravy sauce sopra – macometipermetti. I piatti vanno risciacquati e le persone si salutano: ma loro, non lo sanno. Il  b u s    r e p l a c e m e n t   s e r v i c e: non è vero che i treni stra-funzionano in Inghilterra. E non è vero che il tè è così buono: è esattamente uguale, con l’aggiunta del latte senza se e senza ma.

L’Inghilterra è stata un continuo cenare alle 7 anche quando potevi farlo alle 9, perché alla fine hai comunque fame e l’ultimo treno, se c’è, è alle 23 quindi deve avanzare il tempo per una birra. L’Inghilterra è stata un continuo parlare italiano perché, comunque, gli inglesi dov’è che sono? E poi, diciamocelo, io il brummie non lo capirò mai. In Inghilterra ho avuto sempre freddo, e sempre qualcuno che mi diceva: ma è incredibile, siamo a luglio, o a settembre o caspita però è già novembre. Ho avuto sempre fame, ma sempre qualcuno che aveva fame con me al prossimo chips shop. Ho avuto sempre di che lamentarmi e sempre qualcuno che giustificava le mie lamentele. Ho usurato skype e le email, ho dimenticato i guanti ovunque.

Dell’Inghilterra ho adorato i viaggi-quando-il-treno-è-puntuale, i bus-low-cost-che-ti-portano-a-Londra-finalmente, ho adorato Liverpool e cantare love-me-do per ventiquattrore ore di seguito. Ho amato i libri usati di Oxfam e il cd dei Pink Floyd all’improvviso. Ho apprezzato il-sabato-in-casa-quando-fa-freddo e il ritardo del treno quando era la compagnia più azzeccata del momento a doverlo prendere. Ho apprezzato la cassiera giamaicana che domanda cosa ci fai qui e il collega che ti chiede ma alla fine tu il latte nel té ce lo vuoi o no? Grazie, no.

martedì 18 settembre 2012

La mattina di fianco al tè i piatti brillano


Ogni mattina, alle sette e mezzo in punto, una tazza di tè fuma sul granito nero della mia molto provvisoria dimora. Il té alla mattina lo faccio sempre solo io, ma quello delle sette e mezzo non è per me. Nonostante ciò e nonostante la ciclicità che la mia condizione cenerentolesca, anche se ben poco fiabesca, impone al rito, fare il té è l’unica cosa che riesce a riconferirmi almeno un accenno della vitalità che costantemente perdo, al primo starnuto, ogni volta che metto piede sulla moquette polverosa. Fare il tè alla mattina, oltre a sturarmi le narici, le impregna di una fragranza che imperterrita mi costringe a svegliarmi e pensare che poi non è tutto così male. Il tè, aldilà del colore dell’etichetta e della sua dicitura, ha il profumo del benessere e un colore caldo che se la ride del cielo grigio là fuori, almeno finché qualcuno non mi chiede di metterci dentro il latte, sfidando doppiamente il mio crescente orgoglio dairy-free e la semplicità di una bevanda che non chiede trucchi o imbelletti. Mi concentro, senza pensarci, sulla scia di colore che si diffonde e che mi distrae dal nero inquietante del granito che mi circonda, dalla mia immagine, forse altrettanto inquietante, che vi si riflette, e dai piatti che con la loro luce chimica e costruita se la tirano vanamente al ritmo di guardare-ma-non-toccare. La magia finisce quando da dietro sento borbottare tea is ready, we gotta hurry up.
                                                                                                           

mercoledì 15 agosto 2012

Aggiorna.


Come quando continui a cliccare su aggiorna ma non succede mai nulla. Esattamente così. Come quando la tristesssssa comincia a non piacerti, ma più-la-scacci-più-l’-avrai. Come quando vuoi un gatto ma no, non puoi perché mamma-non-vuole, e il vicino nemmeno. Come quando hai avuto il giocattolino che volevi e no, non sei contenta lo stesso perché ormai non ti diverte più ggggiocare.The number you have dialed is not in service. Cambia numero, idiota. E addirittura la libreria ti sembra noiosa. Mi dessero uno stipendio, saprei come spenderlo. E l’orologio non-si-muove-davvero. Come le foglie degli alberi fuori, mannaggia-a-caligola-mannaggia. Come quando Morfeo è lontano mille miglia, e tu lo odi, lo odi, lo odi-a-mmmorte. Come quando tutto è così così-così. Ma quando finisce l’estate? La mia, tra due settimane e chi-vivrà-vedrà. 

domenica 29 luglio 2012

Che si veste di bianco per scandalizzare.


E per sdrammatizzare un’estate che, ripeto, a me stanca prima di qualsiasi altra stagione. Allora il vestito, le scarpe, il costume. L’intimo. Gli orecchini, le perle al collo. L’unica cosa che di bianco non vorrei sono la pelle. E le idee. Che quando sono pallide mi fanno paura. D’estate, d’inverno o quando ti pare.

I ca-pel-li. Stanno spuntando bianchi anche loro. Ecco, anche questo non mi piace. E nemmeno lo dovrei dire, ma alla fine non m’importa. E poi c’è sempre l’Henne. Quello giusto per me si chiama Caffè-caffè, me l’ha insegnato Lolla. E per la pelle c’è l’abbronzante, quello-con-l’inci-verde-al-beta-carotene. (ah?).  

Per le idee invece ci sono: le penne, i LIBRI, a volte i giornali, i viaggi. Il cuore. Che quando fa un po’ male è una fonte inesauribile di idee, di pensieri e di pippe mentali. Il cuore: c’è quello di zio, che purtroppo non batte più, c’è quello di mamma, che è il più forte di tutti. E poi c’è il mio, che fa un po’ quello che gli pare. Per le idee ci sono anche le altre persone: quelle belle, quelle brutte e quelle proprio contagiose. Poi ci sono anche i pomeriggi afosi come oggi, quelli dove un libro e una canzone ti salvano la vita. E io ho anche: il quaderno che mi ha regalato Silvy, mia madrina e quell’articolo da preparare. Mentre avrò presto: un biglietto per Londra e la valigia viola. Vorrei, invece: un libro di cucina vegana e che la Barbery scrivesse ancora. E comprare rose a dozzine. Che quelle bianche sono le più belle.