giovedì 10 settembre 2015

Emotional overload

In effetti avrei potuto intitolarlo “A volte ritornano”, vista l'assenza prolungata, alias blabla-pausa-di-riflessione-blabla, alias ho-avuto-molto-sonno-puntini-puntini, alias mancanza-di-parole-virgola-o-meglio-di-quelle-giuste-punto, alias m i s o n o p e r s a p e r s t r a d a. Ecco. E non che non ci sia abituata, ma fa sempre un certo effetto.

Avrei anche potuto chiamarlo, “Mordetemi, parte seconda” o “Mordetemi, la vendetta”. Visto che anche stavolta, come quando sono atterrata a Tokyo, ho seriamente pensato: ma sogno o son desta? E non che non l'avessi previsto ma, di nuovo, fa sempre un certo effetto.

E invece no.
Ho fatto la romanticona.
La sentimentalona.
La poethahahah.
E insomma questo pezzo (?!), racconto (?), flusso di coscienza (!) è stato battezzato così:

Emotional overload

Ci voleva il Sud Africa a ridarmi le parole, o meglio la capacità di codificarle.
Ci voleva il Sud Africa a ricordarmi che non sto sognando, ma sono assolutamente desta e che se anche vorrei che qualcuno mi mordesse per capire se è tutto vero, sì, è tutto vero e io sono qui, a Johannesburg, per gli amici Joburg.

Ad accogliermi una vera big mama. Sulla porta della mia camera. Capisco subito che c'è qualcosa che non va. Ed in effetti è così. Lo strafighissimo lampadario, della mia strafighissima stanza, di questo strafighissimo hotel sta cadendo. Big mama mi guarda con sguardo caritatevole ed esordisce con un hey my love, I know you're tired but you gotta wait. Deal. Big mama mi intrattiene – credo che più che intrattenermi stia cercando di tenermi buona – mentre qualcun altro – hey sista how are you doin'? - lotta con strafighissimo lampadario luccicante. Welcome to South Africa, sista.

Lampadari a parte, della mia prima e per ora unica volta a Joburg ho in effetti poco da raccontare, a parte tutto il quaquaraqua, emozionale appunto. Della prima volta appunto. Per il resto è stata una giornata di sonno e taxi, perché a Joburg o così o niente. E quando l'ho richiesto, il taxi, mi hanno pure guardata male:
- ma perché?
- come, scusi?
- dove vuoi andare?
- a Soweto
- a fare cosa?
- …
- abbiamo il Lion Park. Perché non vai al Lion Park?
- …
-te lo prenoto per due ore ma non scendere da sola, non portare la borsa, non fiatare, non respirare in pubblico, non prendere caramelle dagli sconosciuti, non [...]

Johannesburg, quindi, l'ho vista dal finestrino.
Dopo venti minuti di periferie, io, il mio tassista elegante e composto - che, in onore di me, di altre due assonnate avventuriere e dei nostri portafogli, s'improvvisa guida turistica- giungiamo a Soweto. Soweto potrebbe suonare come un nome dal sapore africano ma in realtà è solo l'acronimo dell'occidentalissima nomenclatura South Western Townships. A cercarla nel dizionario, la parola township viene letteralmente definita come “area abitata da gente di colore”. Da qui non è difficile capire che Soweto sia stata il cuore pulsante dell'apartheid, il prodotto più evidente dei piani di segregazione.

A noi si presenta come un distretto vivace e colorato, dove la gente balla, canta, beve, si prepara al weekend, si scatena. Si ferma, si gira, ci guarda, si rigira, ricomincia a ballare. Qualcuno balla per noi, sotto le cooling towers mentre, al tramonto, le fotografiamo, con i loro colori e il loro fascino urbano.

Altri venti minuti di periferie ci riportano ai nostri bicchieri di vino rosso, alle loro bistecche, alla mia insalata, alle stanze museo, ai lampadari luccicanti. Mi perdo, disorientata dal vino e dal troppo sonno, in questa vanità, la fotografo. Inizio a scrivere questo flusso di coscienza, senza sapere che a distanza di mesi, forse un anno, sarebbe stato ancora incompiuto. Affondo in cuscini morbidi e candidi, pensando che questo modo di viaggiare, sempre di fretta e sempre immancabilmente stanca, ti impedisce quasi di realizzare a pieno dove ti trovi, non ti lascia il tempo né le forze, di assaporare ciò che ti circonda e a mala pena sai che sei qui, ora, a Johannesburg, per gli amici Joburg.

Vivi i posti a spezzoni, e se ci ritorni, li collezioni volta per volta, come le sorprese dell' uovo Kinder. Come Città del Capo, la città più bella che abbia mai collezionato finora. Cape Town, che-fa-più-figo, non l'ho vista da un taxi, ma in vari altri modi, che comunque non mi sono bastati.


Da una terrazza a Camps bay, davanti a un tramonto arancione che avrei voluto saper fotografare con sapienza. Da una spiaggia del capo, tra struzzi e pinguini, la migliore lezione di geografia della storia. Dall'alto di un autobus, quelli rossi a due piani che ti scrivono in fronte sono-un-turista. In una domenica di primavera inoltrata e la città pullulava di cose e gente. Ho spiato volti e quotidianità. L'ho vista anche a piedi, il giorno di Pasqua, al seguito di una guida rasta e figa che mi ha insegnato a urlare più o meno così.

Ne ho letto la storia dentro i musei e tra le mura colorate di Boo-Kap, che tutto sembrano raccontare, meno che un passato di tragedie. Che tutto pensi, trane che di essere in uno dei paesi più pericolosi del mondo.Ne ho letto le ferite ancora aperte tra i vicoli polverosi della township di Langa, con un chiodo che ha trapassato prima la mia scarpa e poi la mia carne.

Non ti preoccupare Madame, mi ha fatto tradurre un bambino che mi ha preso per mano, è successo anche a me, ma vado ancora a scuola.

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