giovedì 17 gennaio 2013

Sushi.



È come fare un’indigestione di: orsetti-gommosi-quando-eri-bambina (oravelilasciotutti -sapestedicosasonofatti), musica figa (nonentronelmerito), libri belli (avoilascelta) e tutto-quello-che-mi-piace. Insomma l’apoteosi del gusto. Di quel gusto che nutre e appaga, però, non solo le papille gustative. Ma io l’ho scoperto solo da poco.

Segnali chiari li ebbi in realtà anni fa, quando provai per la prima volta –apprezzandolo parecchio- il sushi, salvo poi abbandonarlo dandomi alla tempura, per una scelta da molti definita masochista (ma-come-fai-a-privartene-se-ti-piace), da altri esagerata (epperò-dai-almeno-ogni-tanto) e da me semplicemente scelta. Il sushi mi piacque assai, comunque. E, fino a poco tempo fa, ha vissuto nei miei ricordi come un cibo raffinato, di quella raffinatezza finta e proibita di cui godono nei miei ideali molte altre cose solo apparentemente fighe: una per tutte, i mille ombretti scriventi di marche per me eticamente impronunciabili. Che se solo non portassero quel nome e millemila litri di paraffina al loro interno potrebbero godere di un posto privilegiato all’interno del mio beauty.

Comunque, per fortuna, una mente di certo più brillante della mia, mi ha fatto recentemente scoprire che il sushi non sembra figo. Il sushi è figo. E non perché ormai tutti lo mangiano destreggiandosi alla perfezione tra il tintinnìo delle bacchettine e le pagine di Murakami. Ma perché ciò che rendeva quella raffinatezza una raffinatezza a me proibita non è il fulcro del suo gusto. Insomma, io, come credo la maggior parte del mondo, il sushi senza pesce proprio non me lo immaginavo. E invece no. Lode dunque all’alga Nori che ha restituito alle mie papille gustative la vera essenza di un piatto da me ormai catalogato come buono-ma-stronzo. Amen.


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